Non sono affatto in sintonia con una certa tendenza artistica che, da troppo tempo ormai, continua a rinunciare ai significati e alla bellezza in favore di opere di poca sostanza, che catturino l’attenzione attraverso immagini “d’effetto”, che suscitino scandalo o clamore per la “bella trovata”, “l’idea geniale”, scaturite da un inconsistente procedimento mentale dell’artista.
Opere troppo fini a se stesse, spesso assurde e incomprensibili, difronte alle quali la maggior parte degli spettatori restano con un grande “booo” nella testa.
Se queste opere d’arte non fossero dentro lo spazio espositivo non sarebbero riconosciute come tali da nessuno.
Ci si è come impantanati su questa tendenza e non si riesce a venirne fuori, anche perché è pensiero comune che ormai in arte sia stato fatto tutto.
Io credo che l’arte debba riappropriarsi della bellezza e dei contenuti, ed è con questa attenzione che porto avanti la mia ricerca che, in sintesi, si può dire che sia una sorta di antropologia filosofica e teologica tradotta in immagini. Essa, infatti, verte sulle domande fondamentali dell’uomo, sul senso della sua esistenza, sul dramma del dolore e della morte, sull’uomo nel suo rapporto con Dio.